Fausta Squatriti

Fausta Squatriti con Olio Santo ci consegna un altro passaggio all’interno della sua personale ricerca artistica che è espressa dal lavoro nelle arti visive e dalla scrittura in prosa e in poesia. Il suo è un cammino tra scomposizioni e ricomposizioni possibili e non sempre plausibili agli occhi di molti. La sua cifra sta dentro un codice di impegno con le categorie dell’esistenza in cui la soggettività dell’artista assume su di sé un compito di delega per tentare di restituire senso all’incomprensibile, voce al silenzio e diritto di esistenza a quanto l’assuefazione al caos, all’orrido neutralizza non vedendo, non udendo.
Se questa premessa sta come ingresso nel complesso della sua ricerca, diviene interessante cercare di capire attraverso quali forme linguistiche e con quali esiti si compia un tale percorso in Olio Santo. Il titolo rimanda senza reticenza al sacramento correttamente detto unzione degli infermi che ha come attesa principale la guarigione dal male o il rinforzo della propria fede nelle ore di dolore. Per quello che riguarda il libro di Fausta Squatriti, anche chi non conoscesse la sua personale visione del mondo, facilmente ne comprenderà, alla lettura di pur isolati testi, che la scelta non è in relazione a istanze confessionali ma piuttosto rimanda a quel compito di delega assunto su di sé dall’artista che amministra il suo ruolo di testimone e attore del presente.
La sintassi delle poesie di Olio Santo è esiziale, contratta al minimo della necessità che ne garantisca la leggibilità e la comprensione ma al contempo individui quella difficoltà del dire usando le abituali categorie di interpretazione e restituzione di quello che accade intorno a noi. Come tenere insieme il mondo del tanto, del troppo con quello del poco, del niente? Il compito è improbo e l’utilizzo parsimonioso di articoli, forme verbali coniugate quasi sempre all’infinito lo esprime senza via di scampo. I testi non hanno titolo ma sono numerati in progressione, come un dispiegato lenzuolo segnato da macchie di sangue: “[…]Sangue /quasi per nulla versato/porpora corona/flagello croce/ e misura/. Lasciateli sfogare” (nr. 3). Il tema del sangue torna anche quando non nominato a chiamare la vita che abbandona la vita facendo temere una impossibile rigenerazione. Nasce il dubbio che l’Autrice non creda ad alcuna possibilità di ricostituzione ma in effetti ne ha solo paura, in questo dichiarando un residuo quanto sofferto amore verso il mondo : “[…]Meglio sarebbe assaporare catalessi/di gente senza storia/nel cordoglio di pochi./ Ma come fare? ” (nr. 18). La paura che agghiaccia è l’indifferenza dei molti ma anche il timore che non ci sia a chi lasciare un’eredità etica che sappia contravvenire all’ipnosi dell’emozione nella consapevolezza. Chi vive vigile non lo farà ma cosa una generazione abbia lasciato a quella che la segue è angustia penosa: “[…] Su biografia assonnata svolazza/ venticello invernale/dilunga sciama sorride/ sollecita dettagli/senza stupore sparisce. Sul campo lascia/ di buoni pensieri un rigo solo.” ( nr. 44).
La cronaca dei giorni fatti di sciagure patite da popoli, sfruttamento di individui, migrazioni drammatiche, morte altrui di poco conto e compianto a caro prezzo sono oggetti della poesia che Fausta Squatriti organizza in questo volume ma ogni elemento che ne faccia una sequela di lamenti è bandita grazie a un controllo lucido della scrittura che si fa diario degli orrori. Questa è la svolta, Fausta Squatriti non scrive un diario ma fa assumere alla scrittura in se stessa la funzione. C’è uno slittamento dallo strumento al prodotto grazie alla tecnica, allo stile personale. Per questa via accade che ogni parola non sia una sorta di documento interno ad un archivio ma sufficiente evidenza di squilibri inaccettati: “ […] E chi spiegherà/ indebita appropriazione/di colpa che/ senza onore rifulge?/Scocciatori/sotto la pancia dei desideri/ un giorno saranno i primi.” (nr. 17). L’Autrice compone questo affresco per frammenti, frantumi, non lasciando niente e nessuno indietro e solo così cattura la speranza del futuro: “[…] Malasorte/si prende tutto/nell’acqua scura galleggia fame/ brezza senza futuro/ malasorte assolda/ sassi piatti belli consunti/ sull’acqua farli scivolare/ seguire la corsa/ con la curva del corpo./ Ridere.” (nr. 36). In quell’infinto a fine strofa viene racchiuso un estremo stupore che riconduce l’umanità ridotta a oggetto (sassi piatti belli consunti) a realtà animata, tenacemente avvinta ad un prosieguo della Storia e della specie. La risata potrebbe essere quella degli sfruttatori, di chi acclama il solo proprio guadagno senza ritegno per il ruolo di datore di vita e morte, ma chi legge potrebbe anche udire una risata di coraggio levarsi da un barcone fatiscente, uno squarcio nella disperazione che fende il buio della notte reclamando la propria alba.
Tra le numerose pubblicazioni di Fausta Squatriti questa ha un carattere particolare perché è al contempo una delle più impervie nella penetrazione della ricerca stilistica ma delle più aperte nella prossimità all’uomo, al destino non figlio del caso ma dell’altrui calcolo e proprio in quanto tale, con sofferenza, con fatica, sovvertibile.
Ed è a questa sovversione che Fausta Squatriti, con Olio Santo, chiama.
Roma verso l’estate 2016, Mariella De Santis