A divenire
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Per riflettere oggi sulla pittura di Alessandro Berra ho sentito la necessità di guardarmi indietro, andando a recuperare quanto scrissi di lui su “L’Ordine” l’11 maggio 1974, dopo il primo incontro con il suo lavoro in occasione di una mostra alla Galleria dello Scudo di Verona: “Berra ha saputo guadagnarsi una fama a livello nazionale grazie a raffigurazioni scarne ed essenziali in cui sa trasfondere uno dei temi che assillano il suo animo e in generale l’animo di tutti noi: la solitudine”. Negli anni ho poi avuto moltissime altre occasioni di scrivere delle sue opere. Nelle mie recensioni d’arte sui quotidiani (L’Ordine, prima, fino alla sua chiusura nel 1984, e La Provincia, poi) e sui periodici comaschi il suo nome compariva spesso in forza di una presenza espositiva assidua in mostre collettive e nelle personali variamente distribuite nel tempo. Personaggio modesto, poco incline a imporsi e a cercare visibilità, Berra ha saputo sviluppare, parallelamente ad una apprezzata attività professionale nell’ambito del disegno tessile, una originale ricerca pittorica dapprima esplorando un immaginario complesso riferibile ora all’espressionismo (si vedano i dipinti del 1963) ora ad un percorso che rasenta il surrealismo per un verso e il realismo magico per un altro (opere 1964-65) per giungere ad una pittura tonale dalle atmosfere soffuse che accompagna una tematica di carattere sociale volta a rappresentare alcuni aspetti della società del suo tempo cui si accosta con passo leggero e di cui percepisce (e soffre) il senso di isolamento che spesso caratterizza l’esistenza umana. Con un suo personalissimo approccio, sembra quasi riprendere quel filone di realismo esistenziale che, con altri accenti, tra gli anni Cinquanta e Sessanta aveva interessato certa produzione artistica soprattutto lombardo-piemontese. La sua, però, è una riflessione pacata e accorata, che rifugge dalla narrazione gridata e a volte violenta nei gesti e nei colori di quella pittura. Eccolo, dalla prima metà degli anni Settanta alle prese con i lavoratori pendolari che, ciascuno nella sua solitudine, attendono, in una sorta di nebbia fisica e mentale, l’arrivo del mezzo di trasporto che li condurrà sul posto di lavoro. Un diffuso senso di incomunicabilità si manifesta negli atteggiamenti delle figure rappresentate, ma anche nell’anonimato che connota ognuna di esse le cui fattezze sembrano eluse dall’artista e si dissolvono nell’opacità brumosa dell’atmosfera che tutto avvolge. Convinto, con Leonardo da Vinci, che “la pittura è una poesia che si vede e non si sente”, ha sempre cercato, in vari modi e con vari mezzi, di riuscire a trasferire la sua visione interiore dell’esistenza immergendo la realtà nei colori e nei segni della sua arte. Per lungo tempo sono colori sommessi che ben si sposano con quel silenzio che riempie i suoi racconti. Poi la tavolozza si ampia, senza mai eccedere. Intanto, nel tempo, la scena (o la figura) di primo piano, fulcro del racconto, trova vitalità nelle azioni che si leggono in filigrana sullo sfondo. Azioni costituite da figure (quasi ombre) che agiscono nella profondità dell’immagine, appena delineate in quei tratti leggeri che diventano forme grazie a un segno quasi istintivo, maturato nella frequentazione del disegno che si fa pittura e innerva nell’intimo ogni rappresentazione. La comparsa di ampi gesti curvilinei, oltre ad aggiungere dinamicità all’insieme porta Berra ad un approdo inatteso di carattere astratto. Il valore plastico di forme dalle geometrie in evoluzione sembra condurre la sua ricerca su un versante fino a quel momento mai frequentato, in cui lo spazio è percorso da guizzi di colore che ne saggiano profondità ed ampiezze. È il momento in cui si cimenta anche con la realizzazione di vetrate simbolico-decorative per edifici di culto, inserendo la sua pittura nella pienezza della luce che ne esalta i valori estetici e rende immateriali colori, forme e azioni. Luigi Cavadini
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